Ho seguito diversi interventi in merito all’ultimo femminicidio al centro dell’attenzione mediatica.
Ho sentito parlare molto della necessità di “spiegare” alle proprie figlie come comportarsi in certe situazioni. Non andare all’ultimo appuntamento. Non accettare che un ragazzo ti guardi il telefono, ti dica come vestirsi. Oppure del “far capire” ai figli come comportarsi o meno con le ragazze, come rispettarle.
Allo stesso tempo, nelle stesse trasmissioni, sono state riportate osservazioni e dati che evidenziano come per le adolescenti sia normale che un fidanzato posso darti uno schiaffo, possa dirti come vestirti e posso guardarti il cellulare. Anzi, come questo sia oggetto di vanto. Venivano anche citati numerosi video su TikTok in cui piccole influencer si mostravano felici di quanto il proprio fidanzato le facesse sentire importanti in tal modo.
Quindi, come stanno insieme queste due cose?
Non stanno insieme, perché non serve a niente di per sè “spiegare” ai figli come dovrebbero comportarsi. Anche se il “come dovrebbero comportarsi” riguarda la propria sicurezza.
Nella maggior parte dei casi, i figli sanno benissimo come dovrebbero comportarsi, ma non lo fanno.
In adolescenza (qui un mio articolo a riguardo per approfondimenti) la parte limbica del cervello, coinvolta nei processi inerenti l’attaccamento e il senso di appartenenza, che lavora alla costruzione di un senso di sé strutturantesi attraverso il riconoscimento e la validazione nello sguardo dell’altro, nel legame con l’altro, prevale rispetto alla neocorteccia cerebrale, deputata al ragionamento e alla regolazione del comportamento in senso razionale ed etico. [Nota: questo accade anche negli adulti con traumi nell’area dell’attaccamento].
Il compito evolutivo degli adolescenti, sostenuto dal loro funzionamento cerebrale, è proprio la costruzione di un senso di sé che si realizza principalmente attraverso le esperienze relazionali nel mondo esterno, in particolare nelle interazioni con i pari.
Il confronto con i pari e con il mondo esterno alla famiglia assume quindi in adolescenza un peso significativamente maggiore rispetto all’influenza diretta esercitata dai genitori, e questo è un movimento evoluzionisticamente funzionale e sano. In questa fase dello sviluppo, il ruolo genitoriale dovrebbe configurarsi idealmente come quello di una base sicura: una presenza stabile e affidabile, capace di accogliere i vissuti dell’adolescente, ascoltarli, e facilitare il collegamento tra emozioni ed elaborazioni cognitive, partendo dalle esigenze e dalle iniziative del ragazzo, piuttosto che porsi come promotori diretti di esperienze strutturanti condivise.
Gli adolescenti arrivano a questa fase evolutiva con un bagaglio costruito nell’infanzia, prevalentemente nell’ambito delle relazioni con e tra i propri familiari. Anche l’esperienza che fanno a scuola passa molto attraverso il senso attribuitole tra le mura di casa.
Se bambini e preadolescenti giungono all’adolescenza con un senso di sé fragile o carente, caratterizzato da vissuti di vuoto, dalla convinzione di non essere sufficientemente adeguati, di dover guadagnare l’amore altrui attraverso il compiacimento o il tentativo di non dispiacere, l’invisibilità del proprio bisogno o la protezione dell’altro come condizione per sentirsi validi, è probabile che i profondi cambiamenti legati a questa fase evolutiva amplifichino tali vulnerabilità, sparigliando le carte.
Figli/e che hanno assistito a violenze verbali, psicologiche, fisiche, in famiglia, che sono stati oggetto di delegittimazione rispetto al loro modo di essere, che hanno incamerato vergogna per loro stessi o il loro corpo, che hanno sentito di non poter esistere senza l’altro e la sua approvazione, o che il proprio esistere fosse funzionale a far stare bene l’altro (ad esempio un genitore bisognoso), proteggerlo, non abbandonarlo, potranno ricevere tutte le spiegazioni che la pedagogia propone, ma saranno vulnerabili alla violenza, che sia psicologica o fisica, subita o agita.
Questo perché nelle relazioni con i pari, soprattutto se di tipo sentimentale e/o sessuale, tenteranno di rimettere in gioco la possibilità di ottenere finalmente la validazione rimasta irrisolta nelle fasi precedenti.
Cercheranno di risolvere attraverso lo sguardo dell’altro/a quello che ha creato loro una profonda insicurezza e senso di disvalore nello sguardo e nei percepiti nell’interazione e nell’osservazione delle prime figure adulte di riferimento, a volte a qualunque costo, anche a scapito dell’autenticità e dell’autoconservazione, perchè senza la validazione dell’altro sentono di non poter esistere: “se anche questa persona mi conferma che non sono amabile / non sono abbastanza / sono quello/a che molla, che è cattivo/a, allora è vero che non valgo nulla“.

Non ho mai visto un intervento di “spiegazione” ad un figlio adolescente da parte dei suoi genitori essere utile, se non all’interno di una struttura già esistente fatta di cura, ascolto, riconoscimento e valore. Una struttura che, se presente, è di per sé un fattore protettivo infinitamente più importante e preventivo della “spiegazione” stessa.
Quindi spero che, soprattutto nella comunicazione mediatica, si possa davvero evitare di diffondere l’idea che sia possibile risolvere la questione spiegando “i cinque modi per evitare che tuo figlio diventi un femminicida” o “i cinque modi per evitare che tua figlia sia vittima di un femminicidio”.
Quel che è certo è che se una persona cresce in una famiglia in cui eventuali traumi transgenerazionali sono stati elaborati, in cui i genitori mostrano reale e genuino rispetto e affetto l’uno nei confronti dell’altra, valorizzando il ruolo del maschile come del femminile; in cui si può tollerare la frustrazione, si può dire no, che si sia genitori o che si sia figli, nessuno possiede nessun altro e ognuno si prende le proprie responsabilità nei confronti di sè stesso; in cui la persona viene davvero ascoltata, legittimata e validata per quello che sente, senza attribuzioni di sorta sul proprio corpo e sulle proprie performance, è estremamente improbabile che possa trovarsi nella situazione di potenziale vittima o attore di un femminicidio.
Il dialogo, l’avvertimento, anche le spiegazioni, soprattutto se riusciamo ad evitare che vengano percepite come “calate dall’alto”, saranno importanti ma solo se un buon senso di sé e del proprio valore è già presente, altrimenti non solo saranno inutili ma anche dannose perché recepite come “i miei genitori pensano che sia stupida/o”.
Non ci sono veloci soluzioni, ma tanto lavoro, profondo e onesto, su di sé e sulla propria famiglia prima che sui propri figli, ogni giorno, come ho visto fare a molti genitori che ho accompagnato nella costruzione di una relazione attenta e davvero generativa con i propri figli.