Autocommiserazione, vocabolario e vergogna sociale

Oggi mi è capitato di porre l’attenzione sulla presenza di una distorsione, nell’interpretazione della lingua italiana, di un concetto importante: si tratta della visione che tende ad essere presente nella nostra cultura del concetto di autocommiserazione

In una discussione a cena, ho rivendicato quello che per me è il valore dell’autocommiserazione. Tutti i presenti hanno manifestato istintivamente un’opinione negativa nei confronti di questo modo di rivolgersi a sé stessi. 

Sono andata allora a cercare la definizione di questa parola in rete e ho trovato qualcosa di interessante.
il primo risultato che compare a inizio pagina su Google se cerchiamo la definizione della parola autocommiserazione è: “Senso di profondo abbattimento per un errore commesso o l’incapacità dimostrata in un frangente, che si traduce in un’INUTILE commiserazione di sé stesso e nell’INCAPACITÀ di reagire opportunamente”. La Treccani riporta: “Sentimento di commiserazione per sé stesso, proprio di chi tende ad atteggiarsi a VITTIMA.”

C’è una quota di giudizio piuttosto sorprendente in queste definizioni, non è vero?

È curioso che invece la parola commiserazione (quindi lo stesso atteggiamento ma rivolto a terzi) abbia un significato molto più positivo nella nostra lingua. 
La prima definizione che appare su Google riporta: “Compassione, pietà* espressa in atti o parole”. La Treccani definisce la commiserazione “Il commiserare**, e più spesso il sentimento di pietà, o di compatimento di chi commisera”. 

*Cosa significa pietà? “Sentimento di affettuoso dolore, di commossa e intensa partecipazione e di solidarietà che si prova nei confronti di chi soffre. Disposizione dell’animo a sentire affetto e devozione verso i genitori, verso la patria, verso Dio, e a operare di conseguenza, o, più in generale, rispetto reverenziale per ciò che è considerato sacro.” (Treccani)

** Cosa significa miseria (in senso non strettamente concreto)? “Stato di avvilimento, di desolazione, d’infelicità”. (Treccani). 

Si parla quindi di compatimento, ovvero di soffrire insieme, di condividere le emozioni dolorose, di affetto e devozione, quando questo riguarda ciò che la nostra società (rispecchiata dalla lingua) valorizza nel nostro relazionarci agli altri

Perché questo stesso atteggiamento, quando rivolto a noi stessi, viene considerato inutile, disfunzionale, vittimistico?
Quanto c’è di strettamente culturale in questo?
Perché auto-commiserarsi, quindi solidarizzare con sé stessi, provare affetto, devozione, comprensione e rispetto verso di sé nel proprio dolore dovrebbe essere qualcosa di negativo, inutile o vergognoso?

Spesso ci sentiamo indotti a vergognarci di sentirci o mostrarci vulnerabili, fragili o deboli. Abbiamo paura di non essere apprezzabili o ricercati in quanto noiosi o pesanti. Quindi invece di prenderci uno spazio fisiologico per stare nella nostra sofferenza, com-patirci o farci com-patire quanto basta per curare le ferite, siamo portati a re-agire saltando a pié pari oltre ai nostri sentimenti, sentendoci più spinti ad occuparci di quelli degli altri che dei nostri.

A volte, inoltre, pensiamo che se ci lasciamo andare all’autocompatimento ci sprofonderemo dentro e non finirà mai. Non siamo abituati a pensare che, nell’elaborazione del dolore, dobbiamo attraversare delle fasi e prendervi contatto, per poi poterlo integrare e superare.

Dovremmo chiederci quanto tutto questo sia un meccanismo sociale determinato culturalmente e quanto risponda realmente ai nostri bisogni più profondi.

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