Regalare un bambino. Ragioni di un no alla maternità surrogata da parte di una psicologa dell’età evolutiva

Voglio premettere che questa è una riflessione sulla maternità surrogata da parte di una psicologa psicoterapeuta profondamente aconfessionale e che lavora ogni giorno ascoltando storie in assenza di giudizio e di criteri di giusto e sbagliato, nella convinzione che ogni storia sia diversa e determinata da motivazioni uniche, sempre legittime e spesso dalle antiche radici.

La mia riflessione, quindi, lungi dall’essere ideologica, si incentra sul benessere evolutivo del bambino a seguito non solo dei miei studi, delle attuali conoscenze scientifiche, ma anche della mia esperienza e osservazione clinica. 

Il primo aspetto che tengo a specificare è che il focus della mia riflessione sulla maternità surrogata non è la genitorialità della coppia omosessuale, ma la separazione programmata e intenzionale di un bambino da chi l’ha partorito e la negazione dell’importanza del ruolo stesso della madre in quanto tale nella crescita del figlio. La maternità surrogata è problematica allo stesso modo, a mio parere, nel caso che i genitori a cui il bambino è destinato siano omosessuali o eterosessuali. 

Risultandomi impegnativo organizzare un discorso lineare che metta ordine nella moltitudine di pensieri e ragioni che costituiscono le basi del mio pensiero, radicato nello studio e nel lavoro di tanti anni, cercherò di suddividere in punti le mie riflessioni.

Sì (invece) all’adozione e all’affido anche alle coppie omosessuali 

Non c’è, a mio parere, nessuna incompatibilità per via della quale una coppia omosessuale stabile non dovrebbe poter adottare o prendersi cura di un bambino in affido, con gli stessi criteri applicati alle coppie eterosessuali. Sarebbe importante lavorare per un riconoscimento di questa possibilità in Italia, legittimando e dando valore al desiderio di genitorialità da parte di chi non possa procreare.

Il distacco precoce da chi l’ha generato, nel caso dell’adozione, provoca indubbiamente un trauma importante per lo sviluppo del bambino, ma non è, in molti casi, evitabile, e non lo è comunque nel momento in cui un bambino è nato e non è stato riconosciuto. La soluzione migliore per un bambino che ha subìto un abbandono o una separazione traumatica perché orfano o perché i genitori non possono occuparsi di lui, è chiaramente essere accudito e cresciuto da altre figure.

In tal caso, la genitorialità da parte di una coppia eterosessuale, omosessuale, femminile o maschile non sottostà, a mio parere e in coerenza con molti studi pubblicati, a preferenze di sorta.

Tutt’altra cosa però è, sulla base del fatto che possa accadere di nascere e poi essere abbandonati, essere legittimati a provocare questa separazione e vissuto abbandonico tra neonato e madre in modo programmato, intenzionale e giuridicamente riconosciuto. Citando Camilla Chini in un articolo inserito nella Rivista di Biodiritto n. 1/2016: “La pratica in oggetto causerebbe problemi analoghi a quelli riscontrabili in situazioni di adozione, con la differenza, però, che mentre l’adozione risponde e dà una soluzione ad una situazione di abbandono già esistente –per esempio, in caso di bambini privi di assistenza od orfani-, nel caso della maternità surrogata si provoca volontariamente una difficoltà che prima non esisteva e che, come si è già avuto modo di argomentare, produce serie conseguenze anche sul nascituro, soggetto terzo alla pratica stessa.”

Togliere senso alla gravidanza

Molte delle riflessioni a favore della maternità surrogata (una su tutte, quella, recente, di Michela Murgia) tolgono senso, complessità e valore alla gravidanza, considerando la gestazione come un mero fatto tecnico

Murgia scrive qualcosa che mi colpisce molto: “Proprio perché un essere umano non è una merce, in nessun caso il denaro versato alla donna gestante può essere considerato un corrispettivo per il bambino, ma sempre e soltanto una remunerazione della sua gestazione” e ancora “non si compra il nascituro, la cui cessione avviene per pura volontà da parte di colei che ne è a tutti gli effetti la madre fisica”. 

Io leggo queste parole e sento sgretolarsi ogni valore dell’umano nell’umano. Sento impotenza nella constatazione dell’assenza nella mente dell’altro degli aspetti più importanti di tutto ciò che ho studiato e che dà senso al mio lavoro di ogni giorno. 

Non tutti possiedono conoscenze psicologiche o neuroscientifiche, ma si dovrebbe forse essere cauti nel parlare di ciò che non si conosce, come purtroppo trovo si esima dal fare Murgia nell’articolo sopra citato.

L’utero non è un incubatore dalle caratteristiche neutre.

Il corpo non è scisso dalla mente e dalla psiche. 

Le ricerche neuroscientifiche dimostrano approfonditamente, nel caso in cui ce ne fosse bisogno, come sia stretto il legame tra madre e feto e poi neonato, fin dalla gravidanza, e di come questo medi la fisiologia e psicologia dell’attaccamento. È un esempio di come mente e corpo siano una stessa entità senza possibilità di distinzione. Niente di ideologico, è scienza.

Siamo mammiferi complessi, e il legame corporeo, chimico, psichico con la madre che ci ha generati non è sostituibile allo stesso modo con un’altra figura di accudimento. La scienza ha infatti ormai dimostrato chiaramente un’influenza biologica sostanziale da parte della madre sul feto,  mediata dal suo stato psichico e quindi chimico, con conseguenze durature sul funzionamento psichico e fisico dell’individuo.
Lo sviluppo cognitivo inizia nella via prenatale ed è legato alla relazione con la gestante: lo sono l’integrazione neuromotoria che media gli apprendimenti, le memorie implicite motorie e sensoriali che provengono dalla gestante e vengono assorbite dal feto e costituiscono la base dell’intelligenza sensomotoria e delle prime rappresentazioni mentali. 

Lo stress emotivo della gestante influisce sullo sviluppo del bambino ed è una delle variabili determinanti che condizionano il temperamento del bambino, le sue abilità, oltre a costituire un fattore di rischio per lo sviluppo di psicopatologie in età più avanzata. Il patrimonio genetico viene attivato o meno e comunque integrato in modo importante attraverso l’epigenetica (rimando qui ad un mio precedente articolo in merito) con effetti duraturi

Da molti studi emerge l’importanza della continuità tra sviluppo prenatale e postnatale, come era già chiaro nella teoria sull’attaccamento di John Bowlby, che ci illustra la base innata di schemi comportamentali ed emotivi di cui sono dotati il bambino e la sua madre biologica e che si attivano dalla nascita essendo frutto della continuità con la gestazione e in particolare con lo sviluppo motorio fetale.

Dopo i nove mesi di endogestazione, ve ne sono altrettanti di quella che viene chiamata da alcuni esogestazione. Si tratta di una fase di simbiosi programmata biologicamente tra mamma e bambino nei primi mesi di vita del neonato, costituita non solo da aspetti psichici ma da aspetti quali: regolazione termica, metabolica, immunologica, endocrina e neurocomportamentale, aspetti favoriti da un contatto con il corpo della madre, mentre sono resi più difficili dalla separazione da essa.
Numerosi studi hanno dimostrato i benefici nello sviluppo del neonato derivanti dal contatto fisico con la madre, di cui riconosce la  voce e l’odore, cosa che lo regola e contiene dopo l’urto del parto. Il bambino, pur non vedendo, viene guidato al capezzolo dall’olfatto. Il neonato si orienta in modo selettivo verso la voce e il volto della madre. Un neonato separato dalla madre dopo il parto, al contrario, piange molto di più e manifesta segnali di stress rilevabili anche nei livelli di cortisolo

Negare queste condizioni, frutto di una evoluzione filogenetica sviluppatasi nel corso di millenni e finalizzata a garantire le più sicure condizioni di crescita psicofisica di un essere umano, in nome di quale diritto, e di chi?

Un figlio come diritto?

Al di là degli aspetti strettamente giuridici, che attualmente in Italia sono comunque coerenti con le riflessioni che sto riportando in queste pagine, cosa significa avere diritto a qualcosa? Parlo un linguaggio psicologico e non giuridico quando dico che il diritto percepito o attribuito si muove tra i concetti di bisogno e di desiderio. Il bisogno è riferito a ciò che mi tiene in vita. Il desiderio, apre al mondo della psiche e del simbolo e dell’umano pensante.

Viviamo in un’epoca in cui, almeno nel nostro occidente, desiderio e sua realizzazione sembrano sovrapporsi in un quadro di fragilità narcisistica che ci definisce in modo drammatico. 

Il mito di Prometeo

Tolleriamo poco la frustrazione del desiderio, il cui oggetto è spesso vissuto come elemento strettamente identitario, di fronte ai limiti rappresentati dalla realtà e dall’alterità dell’altro, che però non esiste solo come risposta al nostro desiderio. 

Mi schiero tra le fila di chi sostiene che la libertà abbia a che fare con la percezione del limite, con cui scendere a patti abbandonando l’illusione dell’ onnipotenza

Non tutto è possibile. 

Nonostante i progressi della scienza e delle tecnologie, a volte disancorate da un pensiero critico ed etico, se teniamo conto della fisiologia dell’essere umano, possiamo pensare ancora al limite.

Il desiderio che proviamo per noi stessi o per gli altri è sempre legittimo, valido nella sua spinta ed è un tramite importante per conoscere se stessi. 

Però una cosa è prendersi cura di un desiderio, guardarci dentro, un’altra è metterlo in atto o agirlo in modo indiscriminato

Non si tratta di castrare o delegittimare un desiderio ma della necessità, a volte, di trasformarlo e renderlo fecondo in altro modo davanti ai limiti della realtà e dell’etica.

In fondo, spostandoci su altro tema, ci è facile pensare che i desideri di un genitore proiettati su un figlio possono limitare la sua esistenza e il suo sviluppo come individuo, se agiti. Pensiamo al percorso di vita di un figlio, di quando un genitore spinge su di lui le proprie aspettative, ad esempio costringendolo ad un percorso di studi per cui il figlio non è portato e impedendogli di percorrere le strade corrispondenti alla sua natura.

La nascita, prima mentale e poi fisica, di una nuova vita, corrisponde sempre al desiderio dei genitori, non potrebbe non essere così. Dall’altra parte è evidentemente non possibile che le sorti di un bambino rischino di dipendere dalla sola proiezione della realizzazione della persona.

Trovo che non ci sia quasi necessità di motivare l’assunto che un bambino non è un oggetto del desiderio che può essere prodotto per essere ceduto tramite compenso, o donato. E che il desiderio di un figlio da parte di un adulto non possa avere la priorità sul diritto di un bambino di essere cresciuto dalla madre. 

Quando si parla di gestazione per altri si riflette molto sui diritti di chi desidera diventare genitore. Trovo che i diritti prioritari siano quelli dei bambini

Mi chiedo infine, nel ricorrere alla maternità surrogata, quanto ci sia di un tentativo estremo di normalizzazione di qualcosa che non viene soggettivamente percepito come tale, senza raffrontarsi con i limiti procreativi fisiologici insiti a specifiche situazioni e, paradossalmente, senza ampliare davvero i confini del concetto di normalità.

La madre

Il concetto, l’archetipo di madre, non sono semplicemente eliminabili dalla coscienza, né dall’inconscio di una persona. Non è pensabile che nella mente di un bambino l’idea di una madre, generatrice e non solo, possa semplicemente non esistere o essere privo di significato. 

Anche se non si è letto Jung, credo possa essere comprensibile da ognuno di noi che la presenza della figura della madre è nella nostra mente in modo innato oltre che simbolico.

Danae, madre di Perseo

Un conto è elaborare il lutto di una madre assente per cause accidentali o invalicabili, un altro è la consapevolezza di essere stati privati di questa figura in modo intenzionale e programmato. Per quale motivo?

Se esiste l’inconscio, sono convinta che, in questa situazione di privazione, un essere umano dovrà fare sempre i conti con la presenza fantasmatica e simbolica di una madre abbandonica o ancor peggio abbandonata. 

Sono d’accordo con la scrittrice Emanuela Nava quando afferma “bisogna essere molto presuntuosi per decidere in modo razionale che la madre non è necessaria e che i bambini cresceranno lo stesso felici e in pace con se stessi. Il rischio invece è quello di sentire, di quella madre negata, il vuoto, idealizzandola e desiderandola”.

E allora le famiglie tradizionali disfunzionali?

Nella mia riflessione, come in ogni aspetto del mio lavoro, non c’è volontà di applicare criteri di buono e cattivo, né tantomeno di applicarli a contesti buoni o cattivi in base alla canonicità o meno di una situazione. La tradizionalità o meno di una famiglia non è peraltro, come evidente, oggetto del mio lavoro.

D’altra parte, colpisce come di fronte a un problema tendiamo sempre a compararlo con un altro peggiore, rischiando di attivare una spirale discendente invece che ascendente. 

Sarebbe come dire che dato che molti muoiono per via di incidenti stradali, tanto vale fumare tre pacchetti di sigarette al giorno. 

Non è un ragionamento sensato né logicamente appropriato. 

Non si può fare della possibilità che un bambino subisca dei traumi la giustificazione legittima per causarne uno in modo intenzionale e programmato, ignorando le implicazioni psicologiche e etiche che questo comporta. 

L’amore non basta

Purtroppo l’amore non basta. Non in relazione alle scelte inerenti la vita di un bambino.

Sono certa del fatto che le coppie che desiderano un bambino e progettino di averlo attraverso la maternità surrogata lo facciano con l’amorevolezza più desiderabile per un essere umano. 

Sarebbe bello che l’amore potesse determinare ciò che è giusto e sano per una persona, ma non è così. Lo vediamo, tra gli altri, nei casi di dipendenza affettiva, dei genitori che rendono difficile ai figli individuarsi per via delle loro emozioni, della loro difficoltà a separarsi (vedi ad esempio la così detta sindrome del nido vuoto). 
L’amore è il motore che dà senso e linfa alla nostra vita, ma è e deve essere un gran lavoro sentire e capire come e dove indirizzarlo.

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